Mentre Badoglio firma l’armistizio, il Circo Mezza Piotta si muove attraverso il paese sopravvivendo grazie alle sue attrazioni uniche: Fulvio (Claudio Santamaria) l’uomo lupo, Matilde (aurora Giovinazzo) la ragazza elettrica, Mario (Giancarlo Martini) il nano magnetico e Cencio (Pietro Castellitto), il ragazzo che controlla gli insetti.  Quando un bombardamento alle porte di Roma distrugge il tendone, il direttore del circo Israel (Giorgio Tirabassi) propone alla compagnia di rifarsi una vita un vita in America e si avventura in città per ottenere dei documenti falsi. L’uomo però non fa ritorno: Fulvio è sicuro sia scappato coi soldi e convince gli altri a proporsi al circo del nazista Franz. Solo Matilde crede invece che Israel sia in pericolo. 

A sei anni da Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti torna dietro la macchina da presa per un altro film di supereroi, questa volta non più ambientato nel presente, bensì negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. La formula è la stessa della pellicola precedente, trasversalmente apprezzata e divenuta un piccolo cult: visto il successo non avrebbe avuto senso stravolgerla. Eppure una serie di dettagli distanziano, e nemmeno pochissimo, il primo lungometraggio di Mainetti da questo secondo. 

I SUPEREROI ITALIANI (CHE NON SEMBRANO ITALIANI)

Nella recensione di Lo chiamavano Jeeg Robot, Andrea partiva dal cast composto prevalentemente da semisconosciuti, dal costo contenutissimo e dall’ambientazione di stretta attualità. Tutti elementi che in Freaks Out assistono a un ribaltamento, il cui punto di partenza è il budget decisamente più abbondante rispetto alla produzione precedente: 14 milioni, secondo una rapida ricerca in rete. L’equivalente della componente marketing di un cinecomics hollywoodiano di fascia bassa, probabilmente, eppure sufficiente a far svettare il film rispetto alla media delle produzioni italiane per fotografia, trattamento sonoro, effetti speciali e, più nel complesso, la bontà e la professionalità della messa in scena, affollata per altro da un mix di attori in rampa di lancio e caratteristi storici. 

Uscendo dalla sala, qualcuno affianco a me commentava: “Si vede che non l’hanno fatto gli italiani”, forse anche un po’ per scherzo, come fosse un meme, perchè ormai è battuta che si fa spesso in questi anni, ma soprattutto è stata una delle formule usate più spesso per fare i complimenti a Jeeg Robot: non sembra un film italiano. L’ha usata anche Andrea, sei anni fa, ed è ancora attuale: fatte salve alcune situazioni (che riguardano soprattutto i costumi e le scene diurne in città, dove l’effetto “fiction RAI” è parecchio forte), Freaks Out non ha l’aria della produzione italiana. E alla luce delle considerazioni del paragrafo precedente, resta qualcosa su cui riflettere. 

Freaks Out

IL CORAGGIO DI FREAKS OUT

La distanza più grande, però, la segna l’ambientazione storica: Mainetti si tuffa nel penultimo anno di Seconda Guerra Mondiale, e gli va riconosciuto un bel coraggio, perchè quel biennio che il paese non ha mai avuto la forza e la voglia di affrontare è alla radice delle divisioni nazionali, ma anche perché decide di entrare a piedi uniti sulla materia. I partigiani che salvano Matilde sono anch’essi una banda di freak, storpi, spesso stronzi e sanguinari. Sono guerriglieri, gente che ha perso molto e che brama il sangue nazista non potendo avere giustizia. Ma è una rappresentazione molto lontana da quella canonica, e quella rabbiosa “Bella ciao” (finalmente scomodata nel giusto contesto) intonata dal Gobbo (un ottimo e sopra le righe Max Mazzotta) ne è una bella incarnazione.

Resta comunque forte la demarcazione rispetto al nemico: i nazisti sono crudeli e altrettanto sanguinari, ma per vezzo e diletto, quasi per gusto. Singolare comunque è la decisione di escludere i fascisti dall’equazione, citati solo una volta per altro nel computo delle vittime dei partigiani, e mai parte attiva dell’azione. Forse davvero dopo la resa di Badoglio e del re non c’era più un fascista in tutta Italia. 

Pur senza fascisti in circolazione, ci pensa il nazista Franz (un bravissimo Franz Rogowski) a incarnare la minaccia per il quartetto: pianista visionario dotato di sei dita per mano, è in grado di vedere il futuro attraverso l’etere, intesa beninteso come sostanza psicotropa e non catodica. Per Franz, la sola speranza del reich è rappresentata dai quattro circensi, il cui passaggio tra le file naziste salverebbe il fuhrer dalla sua ingloriosa fine. 

Freaks Out

X-MEN DI BORGATA

Quel che sopravvive intatto da Lo chiamavano Jeeg Robot a Freaks Out è l’adesione al canone dei cinecomics: si tratta in entrambi i casi di una origin story, ma questa volta declinata nel contesto del super gruppo. Nonostante i personaggi e le saghe a cui il film rimanda in momenti diversi siano molteplici (da La lega degli straordinari Gentlemen al Mago di Oz), sono gli X-Men il riferimento più facile, sia per la trattazione del tema del diverso ed emarginato, sia per l’evoluzioni di Matilde nell’ucronia che contraddistingue la parte finale del film. 

Benché venga facile paragonare le due pellicole, Freaks Out si muove in una direzione diversa, fuori dal territorio della produzione underground, ma ambiziosa, per districarsi nel campo minato del cinema istituzionalizzato, dove non basta più avere idee e intenzioni, ma servono anche sforzi produttivi e doti tecniche di livello. Nonostante qualche passaggio a vuoto nella parte centrale, la sfida può dirsi vinta, anzi stravinta, e con coraggio per tutta una serie di motivi già citati a cui aggiungerei la sicurezza mostrata nel far recitare l’attore sicuramente più spendibile in termini promozionali (Santamaria) sotto una coltre di pelo che ne rende, di fatto, irriconoscibili le fattezze per tutto il film, proprio per evitare che la sua riconoscibilità si mangiasse tutto il resto. 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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